Il pianto di un bambino, le urla di gioia, la paura, la rabbia, lo stupore, sono emozioni facilmente esprimibili con il linguaggio del corpo e, soprattutto, degli occhi. Ma sono emozioni altrettanto comprensibili e percepibili da chi ci sta di fronte? Si sa che l’essere umano è l’essere vivente più intellettualmente evoluto tra tutti ed ha proprio una capacità particolare che permette di cogliere le emozioni altrui. Stiamo parlando dell’empatia, una delle capacità cardine che guida ogni comportamento e ogni azione. L’etimologia della parola è molto particolare, infatti significa letteralmente soffrire (dal greco pathein).
Il termine nel corso degli anni è stato oggetto di studio di molti autori che ne hanno dato diverse interpretazioni.
Da una concezione di tipo filosofico-estetico, tale concetto è diventato per gli psicoanalisti lo strumento indispensabile del rapporto terapeuta-soggetto. Freud si distacca dalla definizione di empatia come capacità ed utilizza il termine immedesimazione, mentre per altri autori, quali Hartmann, Kohut, Basch, l’empatia definisce la psicoanalisi in quanto rientra all’interno del rapporto terapeuta-paziente. Infatti, senza empatia, secondo loro, non si potrebbe portare a termine una terapia.
Diversamente la pensano i comportamentisti, i quali non si occupano dello studio di tale capacità. Con l’avvento della psicologia della personalità e del cognitivismo, lo studio dell’empatia viene ripreso, ma è con gli studi fatti dalla neurologia che si hanno i maggiori sviluppi. Il merito delle neuroscienze, ed in particolare di due studiosi italiani che sono Gallese e Rizzolatti, riguarda la scoperta di particolari neuroni, chiamati “neuroni specchio”, i quali si attivano quando si compie o si vede compiere una determinata azione.
Teorie contrapposte si trovano anche per quanto riguarda lo sviluppo di questa capacità, ci sono i sostenitori dell’empatia innata e c’è anche chi sostiene che l’empatia si sviluppi in maniera graduale, da forme più semplici a più complesse.
Nei bambini le capacità empatiche risultano più difficilmente individuabili in quanto ogni comportamento apparentemente empatico, può nascondere una forma di egoismo inconscia, inoltre si trovano in una fase molto delicata dello sviluppo, ovvero quella fase in cui ogni bambino costruisce la propria identità ed individualità, arrivando a capire che ogni persona sperimenta emozioni diverse dalle proprie. Osservandoli, però, si percepisce che hanno qualcosa di diverso rispetto agli adulti, riescono infatti con semplicità ad approcciarsi ai coetanei, a volte sembra proprio riescano a percepire cosa provano gli altri, quando ad esempio abbracciano un genitore che ha lo sguardo triste o quando si rattristano vedendo un amico o un compagno triste.
Una carezza, una parola di conforto, un abbraccio sono dei segni assolutamente normali, ma in momenti opportuni sono l’unica cosa di cui si ha bisogno.
Quindi si può ben affermare che è proprio grazie all’empatia che il bambino potrà diventare un giovane adulto e poi un adulto emotivamente formato e forte, in grado di reagire agli stimoli esterni con moderazione, di percepire cosa gli altri provano, sentono e vivono.
Autrice : Maria Rita Panepinto, Dottoressa in Discipline Psicosociali