Gli inizi: le teorie Psicodinamiche
Nel 1911, lo psichiatra svizzero E. Blueler conia il termine “autismo” per definire i sintomi associati alla schizofrenia e nel 1943 il pediatra austriaco L. Kanner introduce per la prima volta nel panorama medico il concetto di “disturbo autistico”, per definire un gruppo di piccoli pazienti caratterizzati dalle seguenti caratteristiche:
– Estrema solitudine
– Anomalie del linguaggio
– Manifestazione di comportamenti ripetitivi e stereotipati
– Livello cognitivo pressoché nella norma con picchi nelle capacità mnestiche e musicali.
– Assenza di marker fisici
– Genitori molto intelligenti ma emotivamente distaccati
Kanner, dunque, delinea per la prima volta una sindrome con qualità e caratteristiche proprie, separandola dalla schizofrenia, avanzando un’ipotesi eziologica da ricondurre da una parte a cause biologiche e dall’altra all’inadeguatezza delle cure affettive parentali, in particolare materne: l’incapacità della madre crea un particolare clima affettivo che impedisce all’io del bambino di svilupparsi.
Nello stesso periodo Hans Asperger, pediatra austriaco, descrive un gruppo di bambini con compromissioni cognitive minori o assenti: nel 1981 la psichiatra Lorna Wing conia la locuzione “Sindrome di Asperger” per indicare proprio quelle persone che pur presentando le caratteristiche tipiche dell’autismo, non manifestavano compromissioni cognitive.
La teoria psicogenetica introdotta da Kanner viene sostenuta a pieno dagli psicoanalisti del tempo, primo fra tutti Bettelheim, che conia il termine “madri frigorifero” (Bettelheim, 1967), per indicare proprio quelle madri emotivamente distaccate che, secondo lui, a causa della loro incompetenza emotiva provocano un ‘ritiro autistico’ dei loro figli.
Lo sguardo scientifico
Verso gli inizi degli anni ’60 iniziano ad emergere nuovi approcci per la comprensione dell’autismo che prendono le distanze dalle teorie psicodinamiche e dagli approcci che individuano una disfunzione psicologica come causa dell’autismo.
Grande contributo agli studi e al trattamento dell’autismo lo fornisce la nascita dell’Analisi Comportamentale Applicata che può, essere fatta risalire già agli anni ’60 quando alcuni studiosi, primo fra tutti Skinner, iniziano ad applicare i metodi dell’analisi sperimentale del comportamento al comportamento umano e all’autismo: nel 1968 appare per la prima volta il termine ABA nella rivista JABA (Journal of Applied Behavior Analysis).
Attualmente, la “Linea Guida per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti” 2011 inserisce l’ABA fra i trattamenti più efficaci per il trattamento dell’autismo.
A Londra all’inizio degli anni Ottanta nasce un nuovo filone di studi, portato avanti da S. Baron Cohen e Uta Frith, secondo i quali le difficoltà comunicative e sociali dei bambini autistici erano il risultato di deficit a livello della cosiddetta teoria della mente.
Pertanto, l’intervento terapeutico proposto dagli studiosi si basa proprio sull’insegnamento dei precursori della teoria della mente.
Tali avanzamenti metodologici in ambito di diagnosi portano ad un ampliamento della classificazione di autismo all’interno della psichiatria infantile e al riconoscimento nel 1980 della diagnosi di “Autismo infantile” all’interno del DSM III . Nel 1994 con il DSM IV della definizione di Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (Sindrome di Asperger, il Disturbo disintegrativo dell’infanzia e il Disturbo Pervasivo della Sviluppo Non Altrimenti Specificato, Sindrome di Rett.)
Nel 2013 l’American Psychiatric Association ha rilasciato il DSM 5, che introduce il concetto di spettro autistico determinando una svolta nel modo di concepire l’autismo: da una diagnosi categoriale dei vecchi DSM ad una diagnosi dimensionale che permette di definire meglio le caratteristiche della persona anche in base al supporto necessario.
La nuova edizione raggruppa quattro diagnosi indipendenti del DSM IV in un’unica etichetta di disturbo dello spettro autistico, elimina il ritardo/menomazione del linguaggio’ fra i sintomi necessari per la diagnosi e inserisce la “sensibilità insolita agli stimoli sensoriali” come sintomatologia compresa tra i “comportamenti ripetitivi”.
Teoria dell’integrazione sensoriale
La teoria di integrazione sensoriale sviluppata negli anni ‘70 dalla statunitense A. Jean Ayres, spiega le relazioni tra i processi neuronali di ricezione e quelli di integrazione dell’input sensoriale che hanno come risultato ultimo le risposte adattive (Ayres, 1979).
L’integrazione sensoriale è, infatti, il processo neurobiologico che integra e organizza tutte le sensazioni che provengono tanto dall’ambiente esterno quanto dal nostro corpo (enterocezione).
Una buona integrazione di queste informazioni è fondamentale per produrre delle risposte adattive adeguate all’ambiente, per ottenere una buona regolazione emotiva, per i processi di apprendimento, e per il comportamento in generale.
Secondo queste teorizzazioni, l’autismo è visto come una condizione alla base della quale va individuata proprio una disfunzione dell’integrazione sensoriale.
L’obiettivo dell’intervento, in breve, è quello di aumentare la capacità di elaborare e integrare queste informazioni e di fornire una base per migliorare l’autonomia e la partecipazione nelle attività di vita quotidiana, nel gioco e nelle attività scolastiche.
Nel corso degli anni, le teorie della Ayres sono state validate dalle neuroscienze, approfondite ed estese da altri e hanno dato un notevole contributo allo sviluppo di uno degli approcci inseriti nelle Linee Guida della SINPIA tra le raccomandazioni operative per il trattamento dei disturbi dell’età evolutiva: il modello DIR (Developmental, Individual-difference, Relationship-based model) (Greenspan, et al., 1979) che propone, infatti, un intervento integrato su aree quali la processazione sensoriale, la regolazione emotiva, lo sviluppo motorio e il linguaggio.
Disability studies e Neurodiversità
I Disability studies, sono un orizzonte di studio e di ricerca sviluppatosi negli anni ‘70 in ambito prevalentemente angloamericano, che mette in discussione il modello medico-individuale considerato come unico fondamento delle concettualizzazioni relative alle disabilità.
I Disability studies portano avanti un approccio critico al linguaggio normativo e sociale associato alla disabilità, che la identifica come tragedia personale e deficit da compensare, che minimizza il peso dei fattori sociali, politici, culturali ed economici nella produzione delle differenze ritenute deficitarie.
L’invito è quello di abbandonare parole come: deficit, difetti, malattia, affetto da, sintomo o gravità, che descrivono come deficitari, rotti, sbagliati, mancanti.
In Italia la teorizzazione dei Disability studies si sta facendo spazio solo di recente.
In questa prospettiva si colloca il concetto di Neurodiversità, termine coniato nel 1998 dalla sociologa Judy Singer (Singer, 2016) e che si riferisce all’infinita variabilità illimitata della cognizione umana e all’unicità di ogni mente umana.
Ne deriva che siamo tutti neurodiversi, in quanto non esistono due menti che funzionino esattamente nello stesso modo.
Tra tutti gli individui che costituiscono la popolazione mondiale, alcuni sono accomunati da caratteristiche statisticamente più frequenti e da uno sviluppo cerebrale simile, vengono pertanto definiti “neurotipici” o “a sviluppo tipico”.
Altre persone, invece, non seguono la traiettoria di questo cosiddetto sviluppo tipico, vengono per questo dette “neuroatipiche”, perché appunto divergono dalla norma.
Altre condizioni rientrano nella definizione di neurodivergenza, è il caso della sindrome di Tourette, dell’ADHD, di dislessia e discalculia e altre ancora.
Secondo questa prospettiva, dunque, molte delle sfide che le persone autistiche si ritrovano ad affrontare derivano da quanto il mondo accolga, rifiuti o fraintenda i loro bisogni.
L’autismo, dunque, non è una malattia, non si è “affetti da” autismo, perché, in qualità di variabile nel sistema nervoso, fa parte dell’individuo, non si può rimuovere e non esserlo più.
Per questi motivi è da preferire la definizione di “Autistico” e non “persona con autismo”.
In conclusione, appare necessario cominciare a pensare all’autismo in maniera differente per compiere un cambiamento in positivo.
Un modo per operare questo cambiamento è, appunto, abbracciare il concetto di Neurodiversità.
Autrice : Dott.ssa Concetta Maccarrone – Psicologa e Musicoterapeuta, Tecnico ABA
Bibliografia
APA. 2013. Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders 5. 2013
Ayres, A. Jean. 1979. Sensory Integration and the Child. Los Angeles : s.n., 1979
Bettelheim, Bruno. 1967. La fortezza vuota. s.l. : Garzanti, 1967
Bleuer, Eugen. 1912. Il pensiero autistico. 1912
Cohen, Baron e Leslie, Frith. 1985. Londra : s.n., 1985
Kanner, Leo Disturbi autistici del contatto affettivo. 1943, Vol. Pathology
Sanità, Istituto Superiore di. 2011 Linee Guida per il trattamento dei disturbi
dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti.. 2011
Singer, Judy. 2016. Neurodiversity: the Birth of an Idea. 2016